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È morto Andrea Bizzotto, il papà che ha scritto un libro per farsi conoscere dalla figlia

Il destino che non merita nessuno, la notte scorsa ha colpito Andrea Bizzotto. L’autore di «Storia di un maldestro in bicicletta», 33 anni, se n’è andato a causa di un tumore raro (sarcoma sinoviale). Tutto secondo le previsioni dei medici, che l’estate scorsa gli avevano dato «pochi mesi di vita». Una comunicazione che aveva spinto il ragazzo di Cittadella a scrivere in pochi mesi la sua lettera d’amore rivolta alla figlia Giulia Grace, nata mentre il papà era già alle prese con la chemioterapia. «Non sono uno scrittore, ma nemmeno un analfabeta – è il messaggio che chiude l’introduzione del volume -. Questo libro rappresenta una piccola parte di quello che sono ed ero. Spero che un giorno lo leggerai per imparare a filtrare il buono dal meno buono». L’annuncio della sua scomparsa è giunto attraverso la pagina Facebook «Storia di un maldestro in bicicletta», con un messaggio breve, ma denso di contenuti: «Andrea se n’è andato questa notte – lo ha salutato l’amica Rebecca Frasson, autrice della prefazione -. Ma noi tutti sappiamo che la bicicletta non si ferma: lui ha pedalato così tanto e ora tocca a noi. Ciao Biz. È stato un onore. È stato folle. È stato bellissimo». A corredo, un estratto del film «Jack Frusciante è uscito dal gruppo».

La scelta della metafora ciclistica non è stata casuale. Andrea, nato a Cittadella, è infatti sempre stato un appassionato delle due ruote. Hobby che ha continuato a coltivare in Germania, dove s’era trasferito con un titolo da ingegnere in tasca per dare sfogo alla sua passione: la cucina. A Witten, dove lavorava in una gelateria, galeotto era stato un cono: quello servito a Maria, la donna con cui Andrea avrebbe poi avuto la sua prima figlia, Giulia Grace. È lei l’involontaria co-protagonista di tutta questa storia, anche se potrà capirlo soltanto quando avrà modo di sfogliare il libro scritto da suo papà e di ritrovare il suo amore tra le righe. «Quello che più mi mancherà è la mia bambina – ha sempre ripetuto Andrea nel corso delle diverse presentazioni organizzate da dicembre fino a iersera: ultimo appuntamento a Granarolo Emilia -. Mi sarei meritato la possibilità di crescerla ed educarla, portarla al primo giorno di scuola, prepararle il suo cibo preferito con amore, fare un viaggio da solo con lei. Mi meritavo almeno di lasciarle un ricordo reale di me, non un video o un libro». Del resto, l’idea di lasciare da soli i propri figli dopo essere stati sconfitti da una malattia incurabile è fonte di dolore per ogni genitore.

Con un bagaglio smisurato di amore e tanto coraggio, Andrea ha cercato di godersi i mesi residui che gli rimanevano da vivere. L’impegno editoriale ha rappresentato l’ultimo sforzo verso la normalità, nonostante il cammino sia stato tutto in salita. La prima diagnosi nel 2017: a seguire l’intervento, la chemio e la radioterapia. E poi la fuga (tra una chemio e l’altra) dal suo centro di cura verso l’ospedale dove Giulia Grace stava venendo alla luce. L’amore in grado di scintillare ancora, nonostante tutto. «La malattia, al giorno d’oggi, è un denominatore comune. Ma la storia di Andrea – si legge nella prefazione del libro, i cui proventi serviranno all’apertura di un fondo destinato alla sua bambina – è la dimostrazione che la qualità dell’amore di un genitore malato non ha nulla a che vedere con la sua aspettativa di morte. La vita può farsi carico di storie da raccontare prima della buonanotte, di litigi per poi trovare pace, di una sofferenza che diventa quotidiano, ma non lo scalfisce». Un bigino d’amore che non è un testamento, «ma un modo per stringere la mano di mia figlia e dei lettori», ha sempre detto Andrea: quasi come a voler rimanere agganciato alla vita attraverso queste 178 pagine. «Quando il mio corpo dilaniato dalla malattia diverrà soltanto concime per la terra, Giulia sarà molto arrabbiata e non potrà capire. Mi auguro che possa trovare un’altra figura paterna, come spero che mia moglie trovi un altro uomo, in grado di farla sentire bene, amata e rispettata».

(La Stampa)

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