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Intervista a Filippo Zucchetti: cercatore di senso, compositore d’equilibrio

Filippo Zucchetti non è un cantautore da slogan né da playlist usa e getta. La sua musica abita un tempo più lento, uno spazio in cui le parole cercano radici e i suoni si muovono con discrezione, ma mai per caso. Ogni brano è una traccia di pensiero, ogni titolo un invito a osservare da vicino ciò che spesso passa inosservato. Autore attento,musicista sensibile e osservatore curioso, Zucchetti costruisce la sua traiettoria artistica senza rincorrere scorciatoie, restando fedele a una visione che non teme il silenzio, l’assenza, né la complessità. In questa conversazione, proviamo ad avvicinarci al suo modo di intendere la scrittura, l’ascolto, e l’arte come forma di dialogo autentico.

1. Nei tuoi brani c’è sempre una riflessione profonda, ma mai pedante. Quanto contano le tue letture, il tuo percorso personale, nella scrittura? C’è un pensiero, un autore, che continua a tornare mentre componi?
Per scrivere ho bisogno di stimoli continui che in gran parte provengono dall’osservazione di ciò che mi circonda, dalle letture, dal cinema, dalla musica e dall’arte in generale. La lettura in particolare, per sua natura intrinseca, favorisce meglio la riflessione. Non seguo un pensiero o un autore in particolare, preferisco raccogliere più informazioni possibili da più fonti per poi sviluppare un pensiero personale. È indubbio che ci sono alcuni personaggi che hanno influito maggiormente a formare il mio pensiero come, ad esempio, Ralph Waldo Emerson, il filosofo Giordano Bruno, gli scritti sull’arte di Mark Rothko, i libri di Wayne W. Dyer e altri ancora. Ci sono poi le canzoni di Francesco Guccini che hanno contribuito, soprattutto durante la tarda adolescenza, a delineare il mio giudizio e che tutt’ora sono un faro da seguire durante le mie creazioni. È necessario infine citare Lucio Battisti, che per comprendere la sua importanza nel mio percorso è sufficiente dire che ho cominciato a scrivere melodie e testi quando per la prima volta mi fecero ascoltare le sue canzoni. Fedele alla sua arte fino alla fine e, benché molto popolare, lontanissimo dal sistema mediatico e da qualsiasi moda o tendenza, Battisti è, musicalmente, un riferimento costante.

2. “L’uomo che non c’era” è un titolo che apre mondi: fa pensare all’assenza, al non visto, al non detto. Cos’è per te l’assenza in musica? E che ruolo hanno i vuoti, i silenzi, nei tuoi brani?
Il troppo detto toglie il fascino della ricerca e soprattutto appiattisce l’immaginazione. Con “L’uomo che non c’era” ho celato, sottratto, appena accennato e lasciata libera interpretazione proprio per dare all’ascoltatore un ruolo attivo nel processo di comunicazione. Ascoltando il brano egli può infatti aprire la mente e lasciarsi andare all’immaginazione creando dei propri scenari. Anche nel video, per il quale ho curato la sceneggiatura, ho voluto seguire questa linea inserendo scene che di per sé non sono esplicative; scene lente e silenziose, volti e sguardi semplici e statici che lasciano il tempo di immaginare e riflettere sul testo del brano. Siamo abituati ad un tipo di comunicazione che svela tutto in tempi brevissimi non lasciando spazio al ricettore ad una riflessione personale. In questo modo all’ascoltatore (o allo spettatore) è relegato un ruolo totalmente passivo che con il tempo lo inebetisce e basta. In relazione ai silenzi, nel brano “Anita Non deve piangere”, scrivo: “ci ritroveremo nei tuoi spazi immensi dove i silenzi sono ancora importanti”. Scrissi questa frase perché credo che viviamo in una società in cui l’importanza pare essere data al rumore piuttosto che al silenzio.  Per rumore mi riferisco non solo a quello prodotto dal vociare, dai clacson e dagli autoveicoli, ma anche dal bombardamento dei vecchi e nuovi media; un vortice disturbante fatto di tonnellate di video, immagini, pubblicità, trasmissioni urlate e una smisurata quantità di comunicazione frivola e superficiale che spettacolarizza qualsiasi fatto al solo scopo di stupire e attirare l’attenzione dello spettatore che ne esce vuoto e annichilito. 

3. La tua musica sembra muoversi su un tempo tutto suo, distante dalla frenesia delle mode. Quanto ti interessa oggi che un brano venga capito razionalmente? O pensi che una canzone debba solo essere vissuta, lasciata accadere?
Premetto che quando scrivo un brano non mi pongo questioni relative al dover essere compreso a tutti costi o peggio ancora di compiacere l’ascoltatore. Il fine del brano è prima di tutto il suo divenire e il suo realizzarsi in quanto tale.  Ci sono melodie che mi invitano ad utilizzare un determinato linguaggio, magari più semplice e diretto, altre invece in cui preferisco sperimentare, come nel caso de “L’uomo che non c’era”, in cui non mi sono posto il problema del senso, della logica e della razionalità. È una canzone emotiva, evocativa, onirica e visionaria che tenta di fare un passo oltre la forma, uno viaggio metafisico che ha affascinato me prima di tutti. 

4. C’è una tensione continua, nei tuoi pezzi, tra istinto e costruzione, tra libertà e forma. Come affronti questo equilibrio durante la scrittura? Parti sempre allo stesso modo o ogni canzone ha un proprio percorso?
Ogni canzone è un viaggio e una scoperta. All’inizio non ho ben chiaro il percorso, tantomeno il punto di arrivo. Se tutto fosse già stabilito verrebbe meno lo stupore e la magia della rivelazione. La canzone è tutto un divenire, un seguire una intuizione e vedere dove mi porta, raccogliere lungo la strada i pezzi per completare il puzzle finale e scoprire l’immagine che appare.  

5. In un’epoca in cui tutto ruota attorno all’immagine, tu continui a mettere il testo al centro. Una scelta coraggiosa e rara. È anche una forma di resistenza, in qualche modo? Quanto è importante per te restare fedele alla tua visione?
Non è una forma di resistenza ma è semplicemente ciò che mi piace fare. Credo che se dovessi arrivare a tradire il mio pensiero, cioè quello in cui credo e che mi dà l’entusiasmo e la spinta per scrivere, tutta questa forza, alimentata dalla passione, verrebbe meno lasciandomi un grande vuoto, un’apatia logorante, il terrore di una pagina bianca che non sarei più in grado di riempire.

Redazione Musica 8

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