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Intervista ad Anna Bonitatibus: “Il canto è la mia missione, Rossini il mio maestro”

Attiva fin dai primi anni ’90, Anna Bonitatibus è tra i mezzosoprani italiani più apprezzati al mondo, con un repertorio che spazia attraverso quattro secoli di storia della musica. Innamorata alla follia di Rossini, Bonitatibus ha legato il suo nome al belcanto, ma anche al barocco, alla scuola napoletana, a Mozart e ai compositori del periodo napoleonico, ma non solo. La cantante si è spesa attivamente per la riscoperta di rarità del nostro repertorio, spesso affidate al disco attraverso progetti coerentemente concepiti come Semiramide – La Signora regale, che le è valso un premio agli International Opera Awards nel 2015. Con le sue interpretazioni di Cherubino, Sesto e Romeo, si è poi creata un nome di rilievo come interprete di ruoli en travesti, a cui ha dedicato anche un’incisione. A riconoscimento delle sue interpretazioni händeliane le verrà assegnato l’Handel Prize 2023. Da qualche anno Anna Bonitatibus è a capo di una piccola impresa editoriale dal nome Consonarte – vox in musica che ha lo scopo di riportare in auge il grande patrimonio della lirica da camera italiana. Connessi all’Opera l’ha incontrata a Londra dove risiede e dove la ritroveremo verso la fine di febbraio per un concerto alla Wigmore Hall.

Ci parli di come è nata la sua passione per il canto e della sua formazione musicale.
Ho iniziato a cantare fin da piccolissima, come testimonia una foto di me a 4 anni davanti a un microfono, alla scuola materna. A 5 anni fui iscritta a un’audizione dello Zecchino d’oro per interpretare una nuova canzone; so che cantai a bassa voce e molto timidamente. Quando poi aprì il conservatorio nella mia città, mia madre iscrisse me e le mie sorelle al corso di pianoforte, che iniziai a 9 anni. Al 6° anno di corso desiderai studiare anche un altro strumento e dopo un pensiero iniziale per le percussioni, decisi di prendere lezioni di canto. In seguito, trovare l’insegnante giusto è stato difficile, ero già preparata musicalmente ma avevo bisogno dell’impostazione tecnica corretta. Diedi comunque la priorità al pianoforte e dopo il diploma iniziai a cercare un insegnante serio che avesse a che fare con cantanti professionisti. In seguito mi sono diplomata anche in canto.

Nei primi anni ’90 arriva il debutto a teatro e vince anche numerose competizioni tra cui il primo premio al Concorso Aragall. Franco Corelli era il presidente di giuria. Che ricordo ha di quell’esperienza? Ricevette qualche consiglio dal Principe dei tenori?
Mi tocca profondamente questo ricordo, di cui non parlo mai; un giorno, quando non canterò più, tirerò fuori una foto. Era un concorso importante con circa 100 concorrenti e una macchina organizzativa di tutto rispetto per l’epoca. Corelli era in giuria e io ero l’unica italiana in competizione. Dovetti preparare ben otto arie, tra cui il rondò di Cenerentola, un repertorio per altro lontano da quello sia di Aragall che di Corelli. Da italiana mi feci lo scrupolo di non avvicinarlo, pur essendo per me un Dio, questo per evitare che si pensasse di favori tra gli italiani, visti anche i soliti luoghi comuni che pesano come un macigno sul nostro Paese. Passai quindi tutte le fasi del concorso, cantai in finale e solo al termine del concerto e della proclamazione, quando tutti erano andati via, avvicinai Corelli per salutarlo e chiedergli di fare una foto assieme. Questa fu l’unica interazione, ma con una nota di colore. Nel farci questa foto la moglie di Corelli che era lì seduta ebbe uno scatto di gelosia al quale Corelli replicò seccamente: “e per cortesia.. siamo a teatro!”. Nella foto il mio sorriso è forzato per l’imbarazzo. Su Corelli vorrei aggiungere un ricordo: nel 2003 andai al suo funerale a Milano, recandomi con molto anticipo, temendo che non ci fosse posto; rimasi invece delusa perché non si presentò quasi nessuno, tra i grandi solo la Oliveiro e Giacomini. Ho pianto quel giorno.

Il suo repertorio spazia da Monteverdi al ‘900, ma i tre pilastri sono sicuramente Rossini, Mozart e Händel. Che rappresentano per lei questi compositori e cosa ha imparato a livello tecnico cantando le loro pagine?
Considero Rossini il mio maestro di canto. È vero che ho avuto un maestro di tecnica ma poi l’ho sviluppata da sola anche sulla base della mia formazione pianistica. Rossini è stato il mio vero maestro di tecnica, di grazia, di legato. Grazie a lui ho potuto anche occuparmi di Mozart che ho sempre ritenuto tecnicamente difficile avvicinandolo con la stessa tecnica del belcanto. Ai miei tempi al conservatorio venivano assegnate le sue arie ai principianti. Senza una tecnica solida non puoi cantare le “e” sulla zona di passaggio e reggere tessiture scomode, si rischia di fare del male alle proprie corde vocali e a Mozart stesso. Mi ha insegnato i limiti della mia vocalità, si pensi al canto dei castrati per i quali ha composto, una sfida per voci sia maschili che femminili. Per raggiungere quella soavità e quell’apparente facilità mozartiana serve tempo. Händel per me è come Rossini, solo precedente, li amo anche per quello che li accomuna: entrambi hanno sviluppato invenzioni originali (con radici nel passato), entrambi hanno riutilizzato i propri materiali (autoimprestiti), entrambi hanno avuto relazioni fondamentali con i cantanti nel processo creativo.
Queste alcune delle lezioni che mi hanno insegnato e che vorrei trasmettere a coloro che verranno dopo di me. Ci tengo a precisare che non ho pianificato di cantare questi tre autori da subito, ci sono arrivata in base alle richieste che ho ricevuto. Se mi fosse stato chiesto altro, all’inizio, il mio strumento si sarebbe probabilmente adattato. Con questo intendo che non mi piace molto quando i cantanti vengono categorizzati: i cantanti di Rossini, Mozart e Händel cantavano anche musiche di altri compositori. I cantanti “esperti” di Rossini cantarono anche Verdi. Oggi questo sembra possibile solo per bassi e baritoni, meno per mezzosoprani o soprani. Che senso ha parlare di vocalità verdiana, di vocalità rossiniana? Parliamo in termini di volume, in termini espressivi? Più che la voce tout court dovremmo ragionare dell’impatto con l’orchestra, oggi un vero muro sonoro con diapason in ascesa. L’organico di alcuni titoli di Wagner è più contenuto di quello del Moïse et Pharaon di Rossini.

Nel suo curriculum ci sono collaborazioni importanti, penso a quella con il compianto Alan Curtis. Cosa le ha insegnato nell’approcciare l’opera barocca?
Grazie per questa domanda. Alan, e questo va ricordato, è stato prima di tutto un grandissimo talent scout: tutti i cantanti che sono in circolazione che hanno avuto a che fare anche con il repertorio antico devono questo ad Alan Curtis. Lui mi ingaggiò dopo avermi ascoltata in Tamerlano con l’orchestra The English Concert, ne nacque una collaborazione. Oggi ripenso al valore della dedizione di Alan, in qualità di musicologo, nei confronti delle partiture. Ho imparato molto da quell’atteggiamento di servizio alla musica; non dimentichiamo che Alan è stato il primo in tempi moderni a far ricostruire uno strumento d’epoca, e da questo è risorta la prassi esecutiva storicamente informata. E non dimentichiamoci come veniva eseguito Händel negli anni ’50-’60 del ‘900!

Tra tutti i ruoli che ha interpretato, ce ne sono alcuni che sente particolarmente vicini al suo temperamento e personalità?
A oggi sono ancora in attesa di una parte che mi faccia conoscere qualcosa di me che non ho ancora esplorato. Questa professione è un tesoro da questo punto di vista, ci mette davanti a cose di noi che non sappiamo di poter fare, o a cui non abbiamo ancora pensato, facendoci entrare nella pelle di qualcun altro. Ho amato tanto Cenerentola che resterà sempre nel mio cuore per la grazia, l’equilibrio perfetto della struttura e nelle relazioni tra i personaggi. Rosina – affrontata ai miei esordi come spesso capita ai mezzosoprani – è ancora vittima di cliché che personalmente detesto. Ho avuto la possibilità di cantare il ruolo ancora una volta prima della pandemia, nel pieno della maturità artistica e dopo numerose produzioni di Barbiere. Rivisitare il libretto sotto un’altra luce e andare a rispolverare le varianti di Rossini, rilucida il personaggio; se si fa pulizia delle gag il Barbiere può ancora risplendere. Ho cantato Tancredi solo una volta, eppure lo considero un po’ autobiografico; entra in scena e le sue prime parole sono: “Oh patria! Dolce, e ingrata patria!”

Come molti artisti italiani di successo lavora prevalentemente all’estero. Secondo lei che tipo di diversa attenzione c’è negli altri Paesi verso il repertorio operistico?
Ci sono diverse questioni, legate anche alla professione stessa. Il fatto di lavorare all’estero c’entra molto con il rapporto che le agenzie hanno con i teatri. All’estero, che poi è moltitudine di Paesi e di teatri, capita che ci sia una particolare realtà che mi chiami per un dato titolo, magari perché pensa alla mia vocalità o fisicità o magari perché è più libera nel rapporto con le agenzie. In Italia ci sono altri filtri: magari l’agenzia che mi rappresenta all’estero non riesce a farsi ascoltare, o il teatro in questione ritiene di offrire al pubblico un’artista che conosce già. Va detto che all’estero si programma in maniera più ampia, nel senso della proposta.

Da anni sforna progetti discografici originali e non proprio popolari, senza cedere a tentazioni commerciali. Quanto studio e ricerca c’è dietro?
Tantissimo, anche troppo, incluse notte insonni. Il mio progetto su Semiramide ha preso 4 anni. Solo Jommelli scrisse tre Semiramide, due serie e una buffa. Dopo la selezione dei materiali ho dovuto decidere un diapason e un’orchestra che funzionasse da Caldara a Mayerbeer. Credo che le registrazioni debbano servire per qualcosa che non è stato ancora detto. Io mi sono ritagliata uno spazio che spero possa essere tracciato anche dopo, dai giovani, che stanno già intercettando la vastità del repertorio.

Ci parli della sua avventura imprenditoriale con Consonarte. Come è nata questa idea?
L’idea è nata dal mio animo di musicista, curioso, inquieto e mai contento dello stato delle cose. Da cantante e pianista, ho sempre notato che la produzione di musica strumentale e vocale italiana è stata poco esplorata, anche nel percorso di studi ufficiali. Nel corso di musica da camera viene insegnato il Lied (o la Mélodie), visto il merito storico di Schubert come caposaldo della musica vocale non operistica. Sul fronte italiano si relega la questione della lirica da camera a operisti che hanno composto ariette da camera. Studiando le fonti mi sono resa conto che non è proprio così e con il senso di giustizia che mi anima mi sono rimboccata le maniche. La lirica (da camera), per citare Pizzetti, è il corrispettivo italiano della melodia e del Lied. I salotti di inizio ‘800 (ma anche successivamente) sono stati officine di sperimentazione anche in Italia. Si pensi a Milano e Roma. Sgambati è stato allievo e amico di Liszt, ha composto musica innovativa, ma non è conosciuto. Lo stesso vale per Martucci. E poi Casella, Pizzetti, fino arrivare a Berio. Quando ho iniziato questo progetto ho impiegato un paio d’anni a capire come selezionare i materiali: se l’opera italiana è sovrabbondante, la lirica da camera è addirittura infinita. Prima di questa mia operazione che è davvero umile, esimi professori ed editori ci hanno provato e continuano ad occuparsene. Purtroppo è un mercato molto faticoso e poco remunerativo. Succede anche perché molti musicisti non rischiano, non comprano edizioni, non sperimentano nella programmazione dei concerti. Da quando abbiamo fondato questa piccolissima impresa, che cerca di mettere insieme il pensiero di molti, ricevo frequentemente sollecitazioni su cosa andrebbe pubblicato, sarebbe bello accoglierle tutte, ma le nostre esigue finanze al momento non lo consentono. Abbiamo dato inizio a un progetto di registrazione dei nostri materiali, coinvolgendo anche giovani artisti. Ci auguriamo di poter contare su maggiori sponsorizzazioni per portare avanti questa lodevole iniziativa.

Nei prossimi anni vede il suo repertorio prendere una direzione specifica o non si pone limiti? C’è qualche sfizio che si vuole togliere?
Ogni giorno ho una nuova idea, anche se realizzarla richiede anni di studio, quindi mi sono data una regola. Se quell’idea mi dà ancora emozioni dopo un po’ di tempo, vuol dire che è quella giusta da portare avanti. Non mi pongo limiti né nell’opera, né nella concertistica. Un giorno mi piacerebbe entrare in una direzione artistica e cercare di creare una programmazione più sperimentale e anche più inclusiva. C’è tanto pubblico da soddisfare. Ora contano solo i numeri e la logica da box office. Sarebbe da invertire la riflessione e accontentare anche altri ascoltatori. Ha senso che in Italia in una stessa stagione ci siano tre Don Carlo con la moltitudine di titoli che abbiamo in repertorio? Sempre per tornare alla sua domanda, sono aperta alle nuove esperienze, mi piacerebbe fare musica del ‘900 per esempio.

La sua personale esperienza con le regie a noi contemporanee.
Ho avuto, talvolta, alcune difficoltà perché non essendo coinvolta nel processo creativo mi è stato più oscuro il senso di qualcosa deciso a priori. Ciò detto, non mi sono preclusa e ho imparato moltissimo da personalità molto distanti da me che mi hanno aperto una visuale, infrangendo alcuni miei limiti e hanno reso il mio vocabolario, anche attoriale, sicuramente più variegato. Ammetto, però, di essermi trovata in produzioni molto faticose…

Se non sbaglio, le piace definirsi “anti-diva”. Che cosa intende esattamente?
Non fare la professione della diva, che è un’altra cosa, ovvero concentrare l’attenzione su di sé e – non uso mezzi termini – usare la musica per i propri scopi. Il mio atteggiamento è all’opposto. Io metto la mia persona, il mio studio, la mia conoscenza e quello che ho ancora da imparare a servizio della musica, per lasciare qualcosa a chi ci sarà dopo di noi. E non mi piace la parola “carriera”, preferisco invece parlare di attività professionale.

Se potesse dare un consiglio all’Anna Bonitatibus degli inizi con il bagaglio dell’esperienza di oggi, quale sarebbe?
Avere cura delle relazioni personali, perché questa professione, se svolta ad alti livelli, costa moltissimo sul piano privato. Se non ti concedi mai nulla, se sei perfezionista e dedichi molto tempo allo studio, è facile sacrificare famiglia e amici. È importante invece ritagliarsi del tempo in più per questo.

Cosa le piace fare quando non si occupa di musica?
Fino a prima della pandemia andavo a nuotare; il nuoto è per me una valvola di sfogo, l’acqua rinfresca il cervello fumante, il telefono non è consentito e il rapporto è tra il nostro organismo e un elemento della natura. Amo leggere, senza sosta.

Quali incisioni porterebbe su un’isola deserta?
Porterei con me l’incisione della Suor Angelica cantata da Renata Scotto, in particolare l’ingresso “I desideri sono i fiori dei vivi”. Poi lo Scriabin suonato da Horowitz, il Ravel suonato da Michelangeli, i Péchés de vieillesse di Rossini suonati da Dino Ciani. Poi porterei qualcosa di Cathy Berberian, con il suo modo così differente di concepire la musica antica… troppe, impossibile scegliere.

Per ultimo, ci parli dei suoi impegni e progetti futuri.
Parto per un tour europeo di Alcina con Mark Minkowski e Les Musiciens du Louvre. Debutto come Ruggiero, un debutto annunciato in realtà già vent’anni fa, ma reso possibile solo ora, sono molto contenta. Mi piacerebbe anche cantare Ariodante, visto che conosco già il personaggio avendo cantato e registrato la Ginevra di Scozia di Mayr. Mi affascinano i cavalieri, la loro compostezza, la diplomazia, la capacità di amare e interrogarsi, di accettare un destino all’inizio avverso ma che poi si chiarisce, la loro eleganza. Poi terrò un recital alla Wigmore Hall di Londra il 23 febbraio con la grande pianista Angela Hewitt, nel programma due cicli di melodie e di liriche e due scene per Canto e Pianoforte. Uscirà presto anche una mia nuova registrazione per l’etichetta Prospero dal titolo Monologues. Si tratta di un doppio CD che ho inciso con la pianista Adele D’Aronzo, dedicato alle scene per Voce e Pianoforte in un arco temporale che va dal 1804 al 1911. La copertina vuole essere un omaggio ad Anna Magnani. Le scene che ho registrato sono Ero di Zingarelli, Saffo di Donizetti, Giovanna D’Arco di Rossini, Les Adieux de Marie Stuart di Wagner, la scena di Ermione di Viardot e Aretusa di Respighi.

Per Pietro Dall’Aglio

 

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