Entrevistas

Intervista allo scrittore Roberto Cotroneo, in libreria con “Loro” – Per Chiara Albertini

Roberto Cotroneo è recentemente uscito in libreria per Neri Pozza con il suo ultimo romanzo Loro, una rivisitazione della ghost story dal sapore fortemente gotico. Attraverso le pagine di questo libro, che in quanto cariche di una costante suspense costituiscono una vera e propria calamita per il lettore, l’esplorazione del tema universale della dicotomia bene-male viene proposta attraverso un’architettura strutturale ben articolata e un’inquietante poliedricità semantica, riuscendo a offrire come risultato finale un mosaico variopinto dove ogni piccola tessera combacia l’una con l’altra in un incastro perfetto e geniale, che non ammette repliche.

  • Sappiamo che è fotografo. Quando si è accostato al mondo delle immagini? Cosa cerca di afferrare ogni volta attraverso le sue “diapositive di vita”? Il senso di ciò che ciascuna sua fotografia racchiude… riesce a coglierlo all’istante, nel momento stesso in cui sta scattando la fotografia, o piuttosto ritiene di afferrarlo appena pochi attimi prima, o ancora di ritrovarsi a scoprirlo poi, in un secondo momento? In questo ultimo caso, osservando una sua fotografia, le è mai capitato per cui di vedere oltre, ovvero di scorgere un significato più ampio, profondo, riuscendo a trovare “altre cose” rispetto a quella determinata “cosa” che inizialmente si era prefisso di immortalare?

Per me la fotografia è un atto erotico, assai più della scrittura. Ѐ puro erotismo, è osceno nel senso profondo di messa-in-scena. Perché ha a che fare con lo sguardo, e con l’estetica dello sguardo, e con il desiderio dello sguardo. Nessun fotografo è distante dalle immagini che genera. E di solito cerca di possederle, se possibile. Il piacere dell’immagine è molto più forte del piacere del testo. Non ho mai scritto romanzi erotici, ma considero la mia fotografia una variazione continua sul tema dell’erotismo. E non è un caso che io lo faccia astenendomi (per ora) di fotografare il nudo. Riguardo a questo le fotografie contengono assai di più di quello che potremmo immaginare. Prendiamo le leggende sulle foto di fantasmi: sono una costante nella storia della fotografia. Si tratta di scatti normali, di luoghi e persone. Ma al momento dello sviluppo, ovvero, al momento in cui la fotografia torna alle sue origini, alla chimica magica che le ha dato i natali, affiorerebbero personaggi inquietanti: fantasmi, ectoplasmi. Parliamo di centinaia di fotografie, moltissime abilmente rimaneggiate, altre davvero strane. È certo che la scarsa definizione della fotografia analogica aiutava effetti di questo genere. Un po’ come le luci delle candele evocavano spiriti assai più delle luci al neon arrivate con la modernità. Ma che su una pellicola potesse apparire qualcosa di più di quello che si è visto mentre si stava scattando è stata una convinzione per decenni. Sembra che la foto digitale non consenta più queste apparizioni, anche se è ovviamente ancora più falsificabile: i numeri, la razionale macchina fotografica che registra tutto quello che si vede, non è stata programmata per mostrare anche quello che non è visibile, se non con un palese inganno. Ma io con la fotografia inseguo l’invisibile di continuo.

  • Potere dell’immagine: credo che per lei in qualità di artista sia indiscutibile il potere che da sempre una fotografia può sprigionare… le chiedo: quali riflessi di Roberto ritroviamo nelle sue fotografie? Ovvero, queste ultime “parlano” in qualche modo di lei come uomo? Ci permettono di comprendere alcuni suoi lati caratteriali e/o la visione del mondo che le appartiene? Inoltre, negli scatti fotografici che acquisisce ogni volta, risiede ciò che in parte ha già vissuto, o piuttosto molto di ciò che vorrebbe aver vissuto o desidererebbe poter vivere?

Nessuna mia foto dice la verità di quello che accade, perché non ne è capace. Restituisce all’osservatore uno spazio intraducibile, ombre interiori che neanche la definizione più accurata, più studiata, riesce a scacciare. Alla fine forse esiste un inconscio fotografico, qualcosa che ci portiamo addosso senza neppure accorgercene. Il mio è quello di fermare il movimento dentro gli spazi, una incompiutezza che sopporto perché sa di me più di quello che vorrei.

  • Lo scatto fotografico in sé è in un certo senso “fare intimamente esperienza di qualcosa”… un po’ come la scrittura sostanzialmente. Come definirebbe questi due mondi paralleli? Hanno lo stesso potere semantico, sono entrambi efficaci e in ugual misura nel veicolare messaggi, o crede che a volte il potere di uno possa surclassare l’altro? Cosa fornisce la fotografia che invece la scrittura non riesce a dare, e viceversa? A quale mondo sente di appartenere maggiormente, dove si sente più a suo agio, più sciolto, libero?

Più volte me lo sono domandato anche io: non si tratta di aggiungere dei testi alle fotografie a complemento, ad arricchimento, a contrappunto del lavoro. Questo lo possono fare anche i fotografi che non scrivono, ma che possono aggiungere dei testi al lavoro sulle loro immagini. Testi che complicano, che magari rendono il significato dello scatto più oscuro, più enigmatico, o al contrario più nitido. Si tratta di capire invece come pensa un fotografo e come pensa uno scrittore. La domanda ultima è certamente: c’è un modo di scattare pensando da scrittore? E viceversa: si può scrivere con le immagini, utilizzare la lingua letteraria in una forma che possa assomigliare a una galleria fotografica, alla scansione e alla distribuzione delle foto in una mostra? Non credo sia esattamente questo. Ma ci possiamo avvicinare attraverso una domanda ulteriore: i linguaggi si possono unire, unire mentre si scatta, e non dopo, quando vedi la foto e aggiungi senso con la parola? Probabilmente sì. Ma parlare in generale di linguaggi è un errore. Perché è la parola teatrale che dialoga con la fotografia: è la scena, nel silenzio della fotografia, che per postulato è condannata al silenzio. Ma è evidente che prima di ogni cosa io sono uno scrittore. Passa tutto dalla parola. Lo sguardo è un’altra cosa ancora. Forse quella è la parte più sensuale.

  • Scrittura: quando si è accostato al mondo narrativo? Ѐ avvenuto prima del suo approccio all’universo fotografico, o solo più tardi? Quali stimoli rintraccia nella stesura delle sue opere e dove trae ogni volta l’ispirazione?

La scrittura mi appartiene da sempre. La fotografia è stato un sogno giovanile, dimenticato e immerso dentro la parola in un secondo tempo. I miei libri, ormai circa 30, sono tutti diversi, e sono dei progetti che cambiano di volta in volta. Mi muovo da sempre dentro materiali letterari, tra i libri che conosco, ma anche tra le opere d’arte, anche dentro la musica. È un lavoro che faccio da sempre. La parola e la visione. Le citazioni e gli altri libri, in questo senso sono un autore complesso.

  • Loro: un titolo “magnetico”, che cattura indubbiamente l’attenzione, che quasi “ipnotizza”… mi verrebbe da dire, proprio come la copertina; c’è una sorta di osmosi e simbiosi fra il titolo e l’immagine raffigurante le gemelle. Qual è la genesi di questa storia? Quando hanno “bussato alla porta” questi due personaggi femminili? Questi ultimi sono il fulcro attorno al quale ruota un intreccio narrativo ricco di spunti di riflessione che vanno a convolare in ambiti complessi e contradditori della psiche umana, da tempo a lei noti e che predilige. Cosa sente di dirci in merito? Quale tipo di esperienza sensoriale ritiene di aver vissuto durante la stesura di questo suo ultimo libro per Neri Pozza? Ha riscontrato difficoltà? Le ha fornito stimoli semantici e/o lasciato messaggi ipertestuali di cui ancora non era a conoscenza?

Questo libro chiude un cerchio che inizia da un luogo lontanissimo che neppure io so ritrovare davvero. Forse da Umberto Eco quando con Il nome della rosa finì per cambiarmi la vita, cominciando da quella professionale. La sua idea di un testo “che è un tessuto di altri testi”, un “libro fatto di libri”, è sempre stato un mio modello. Se nei miei altri romanzi l’ho fatto mostrando più apertamente il lato saggistico e intellettuale, qui ho provato a mettere in atto una messa in scena, che nasconde gli attrezzi che stanno sul palcoscenico, e mostra solo l’illusione, l’effetto visibile di quanto si racconta. Ma conta anche quello che sta dietro le quinte. Ed è dietro le quinte che la letteratura, i romanzi rivelano quello che vogliono dire veramente. Anche se lei di certo lo sa bene: “ciò di cui non si può teorizzare si deve narrare”.

  • La casa di vetro: rappresenta senza dubbio un punto cardine, vitale per il contesto della storia narrata, e ho come l’impressione che la scelta mirata di questa particolare e suggestiva ambientazione sia stata determinante per raggiungere la verità di intenti che fin dall’inizio si è prefisso di cogliere e rappresentare. Voglio dire, Loro non sarebbe potuto esistere senza di lei, o comunque non avrebbe avuto la stessa portata semantica… è d’accordo con me? Inoltre, il vetro in sé, inteso come oggetto, garantisce sempre una visione globale, totalizzante e nitida delle cose? Va sempre “al cuore” di queste ultime, in modo diretto, preciso e veritiero? Permette sempre e comunque di vedere realmente ciò che sta al di là di esso, o piuttosto è la nostra mente a volte a metterci lo zampino, a giocare un suo ruolo alla fine, a distorcere e plasmare le cose… così che nulla è come sembra?

È la scrittura a essere di vetro. C’è una corrispondenza ovviamente. Dopo di che quel tipo di edificio, con alcune diversità inevitabili, esiste. È la Casa unifamiliare a Floirac, indirizzo 56 Place Gambetta, 33000 Bordeaux, Francia, costruita tra il 1994 e il 1998. Nel 2002 la maison è stata inserita nell’elenco del patrimonio dei monumenti storici di Francia. Nel 2008 è stato girato il film/documentario Koolhaas Houselife di Ila Bệka e Louise Lemoine, primo della serie Living Architectures. L’obiettivo della serie era capire come si vive dentro un’opera d’arte. La casa a Floirac è stato il mio punto di partenza per raccontare e descrivere il luogo in cui vive la famiglia Ordelaffi. Va da sé che una rivisitazione, una rilettura del Giro di vite di Henry James, canone assoluto per qualsiasi romanzo di questo tipo, non mi consentiva un’ambientazione con villa vittoriana, o comunque antica. Riprodurre Bly sarebbe stata buona cosa per un romanzo di genere, ma non certo per un lavoro di questo tipo. Unire il contemporaneo con l’arcaico, è stata la prima delle scommesse. Sono tutti moderni nel romanzo, eppure non lo sono, e non tanto per le ascendenze aristocratiche, quanto piuttosto perché il tenere assieme l’arcaico e il contemporaneo, è per me – almeno per me – una delle scommesse intellettuali che perseguo da sempre. Per cui i vetri della villa supermoderna si sposano con il tempietto rinascimentale (il modello immaginativo è il Tempio di Diana a Villa Borghese, un tempio monoptero di forma circolare che – nel caso di quello a Villa Borghese – è in stile neoclassico) e soprattutto con la scultura della dea Ecate.

  • Se dovesse scegliere di calarsi nei panni di un personaggio del suo romanzo, in quale sente di identificarsi o rintraccia aspetti a lei più vicini? E perché?

Ah, io credo di essere il pianista che appare a Margherita. Sono un uomo che ama sempre cambiare le regole del gioco, aprire porte chiuse, restare su un crinale incerto. Perché dai crinali i panorami sono inaspettati.

  • Quanto è importante per lei credere che in questo mondo, e oltre ad esso, vi siano più “verità” a cui ancorarsi? Comprendere e accettare di conseguenza che possano esistere più prospettive e angolazioni, più interpretazioni di ciò che ci circonda, diverse “realtà irrazionali” – perdoni l’ossimoro? Quanto considera fondamentale nella vita studiare i meandri più oscuri della mente, scandagliare la complessità dell’animo umano?

L’angoscia della pagina bianca, come la chiamava Rimbaud, è il fantasma della pagina bianca, in realtà, in un certo senso una forma dell’oscurità e dell’oscurità della mente. È φάντασμα, ovvero apparizione. Cerchiamo apparizioni di continuo, che entrino nella nostra vita per regalarle agli altri. Perché la scrittura è prima di tutto un conto che regoli con i lettori. E i lettori sono i coreuti, sono il commento a quello che scriviamo, ma soprattutto a quello che siamo e stiamo diventando. Per questo scrivere è il miglior modo per conoscere se stessi. E non c’è cosa più importante di questa. In una favola indiana un bambino si perde a seguire le trame degli arazzi e arriva dentro un mondo magico e segreto. Lo fa scegliendo uno soltanto dei fili che contribuiscono al disegno del tappeto. Segue solo quel filo, come fosse l’unica strada che ha davanti, per tutta la trama, senza mai perderlo di vista. Il poco tempo, l’esigenza di non approfittare troppo delle attenzioni dei lettori, ha costretto gli autori ad assottigliare le trame. Togliere molti fili secondari, scartare certe sfumature, che nel mondo colorato e saturo in cui viviamo andrebbero confusi, non si noterebbero. Abbiamo svuotato il termine trama dal suo significato vero, e lo abbiamo sostituito con una corda a cui aggrapparci. Le storie di oggi – che sia letteratura o cinema poco importa – non sono trame: sono corde, semplici, anche utili, con poca ricchezza e poca complessità. Ma un tempo le trame erano altro. Erano fili diversi che arrivavano, si intrecciavano, creavano disegni, erano equilibri di colori, qualcosa di complesso che alla fine però sapeva mostrarsi con semplicità. Raccontare una storia era tessere un tappeto, nodo dopo nodo, che alla fine sarebbe apparso bellissimo, e che nel suo rovescio era tutto un groviglio di intrecci. Quel rovescio mi interessa molto.

  • Amore per la musica: sappiamo che è appassionato di pianoforte e ciò emerge evidentemente dalla scelta di un determinato personaggio maschile ritratto. Senza di lui la storia narrata si sarebbe inevitabilmente sfaldata, avrebbe perso di valenza e significato, vero?

Quel personaggio ha un rapporto con la musica, e la musica torna in tutti i miei romanzi. La musica, come dice Schopenhauer, è Volontà. È un modo per comprendere il divino, forse addirittura per sentirlo. Non riesco a resistere alla tentazione della musica dentro i miei romanzi, come non riesco a resistere alla tentazione del corpo nelle mie fotografie.

  • Se dovessero manifestare un eventuale interesse per la storia narrata in Loro, rivolto al piccolo o grande schermo, si sentirebbe di assecondare la volontà di un produttore, uno sceneggiatore o un regista che sia? O preferirebbe mantenere la storia racchiusa solamente fra le pagine di questo libro?

Io sono lontano da queste cose. I testi vanno in giro per il mondo. Dai testi alle volte si scrivono soggetti e sceneggiature. Gli autori hanno il dovere di fare un passo indietro. Sgombrare il campo. Lasciare che la creatività resti un campo coltivato a maggese, come diceva Masud Khan. Perché è proprio nella somma di autori, soggetti e sceneggiatori che le storie assumono declinazioni diverse e nuove ricchezze.

(Per Chiara Albertini)

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