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“CORRIERE DELLA SERA”: 8 MARZO: Ha senso dirsi femministe? Cosa può migliorare la nostra vita?

Possiamo ancora dirci femministe? La parola «femminismo» ha forse acquisito un valore negativo, tanto che andrebbe prudentemente chiusa in un cassetto assieme alle foto di piazze piene e frasi scritte sui muri, tra le memorie di un passato ormai elaborato, superato, rivisto? La domanda arriva dagli Stati Uniti. A offrirla a generazioni di donne non solo americane – in questo 8 marzo 2013 – è stata una delle manager più potenti e pagate al mondo: Marissa Mayer, amministratore delegato di Yahoo!.

La sua biografia rappresenta in sé la prova che una lunga strada è stata fatta, che le battaglie del passato sono diventate conquiste, possibilità realizzate.Ha 37 anni, è stata la prima donna ingegnere a essere assunta da Google; si è imposta in un mondo – quello delle nuove tecnologie – che ha finito per essere dominato dagli uominibenché in teoria rappresentasse il campo ideale per una ripartenza professionale alla pari; non ha rinunciato alla maternità e ha fatto costruire una nursery accanto al suo ufficio per non trascorrere troppo tempo lontano dalla figlia di pochi mesi. La foto che la ritrae mentre va da Obama in mezzo a un gruppo selezionato di capi azienda (maschi) mostra una ragazza bionda, con lo sguardo senza ombre e complessi, sicuramente divertita e piena della propria diversità.

La rete ha reagito con una valanga di commenti, moltissimi insulti e ironie, ma la provocazione ha lasciato il segno. La stessa cosa è successa a Sheryl Sandberg, numero due di Facebook, che ha scritto un libro (Facciamoci avanti) nel quale si propone come mentore per donne in ascesa ma senza alcun prologo ideale – e soprattutto senza indulgenza per le difficoltà che, alla base di una piramide sempre più ripida, milioni di donne affrontano ogni giorno in un mercato del lavoro precario. Il suo brusco messaggio è: meno lamenti e alibi di genere, puntate sull’autostima e lavorate sodo.

E dunque: siamo arrivate a un bivio? La verità è che, dietro ai successi anche straordinari che fanno brillare alcune biografie, moltissimo resta da fare. Ma parlare apertamente di «battaglie femministe» – ha scritto Hannah Rosin, autrice di La fine degli uomini – sembra essere un modo di alienare la partecipazione delle più giovani a quelle stesse battaglie e, di conseguenza, indebolire le chance di riuscita collettiva.

L’ultima ambiziosa generazione di diplomate e laureate, riflette Rosin, ha ancora bisogno di sostegno per garantirsi pari opportunità – che sono tuttora poco diffuse – e tuttavia si rivela spesso lontana da ogni movimento al femminile, persino ostile a un patrimonio storico che vive come un peso, unita più che altro nel considerare «il gruppo» una perdita di tempo che poche pensano di potersi permettere lungo il rettilineo infinito di 24 ore che diventano 27 in giornate affollate di tutto. Di funzioni ereditate dal passato, sollecitazioni moltiplicate del presente, eterne aspirazioni future. (Corriere Della Sera) – Barbara Stefanelli.

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