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Intervista a Roy Menarini – La grande illusione: storie di uno spettatore

Per Marco Paiano

La grande illusione si apre con la frase “Questo libro è dedicato a tutte le persone che mi hanno accompagnato al cinema”. Una descrizione perfetta della vita del cinefilo, che persegue una passione sempre più di nicchia ma allo stesso tempo ha bisogno di condividerla. Crede che il tempo delle comitive al cinema sia ormai definitivamente tramontato o c’è qualche possibilità di riportare di nuovo la sala cinematografica al suo ruolo di luogo di condivisione culturale e sociale?

Questa è la domanda su cui ci stiamo interrogando tutti. La fotografia del presente vede le comitive riunirsi principalmente per i film evento. Questi magari verranno moltiplicati, ma trattandosi appunto di eventi non sono film che escono tutte le settimane in sala. Questa evoluzione era già nell’aria, e la pandemia probabilmente l’ha accelerata. Il problema più grosso per il futuro è quello di fare in modo che le persone decidano nel proprio tempo libero di andare al cinema e non di “vedere un film”. Con questo intendo che nel discorso comune ci si deve tornare a chiedere se andare al cinema, e successivamente chiedersi cosa guardare. Oggi questo discorso non c’è. Oggi ci si chiede se andare a vedere Spider-Man, non c’è più il pensiero di andare al cinema interrogandosi e documentandosi sulle varie programmazioni.

O torniamo a rendere il cinema qualcosa di appetibile e interessante in quanto tale, in modo da raggiungere una continuità nell’andare al cinema all’interno delle comunità, altrimenti lavoreremo principalmente sui film evento e nicchie di appassionati andranno al cinema regolarmente. Purtroppo temo che al momento la seconda ipotesi sia più verosimile.

La grande illusione è composto da 10 stanze + 2 post scriptum. Come è arrivato a questa selezione? C’è qualche visione che avrebbe voluto inserire nel libro ma ha a malincuore tagliato?

La struttura de La grande illusione è basata su un’integrità che ho chiesto a me stesso. Dovevo scegliere onestamente i 10 ricordi più forti che avevo di altrettante fasi della vita. Una volta stabilita la struttura, non ho dovuto basarmi sull’importanza dei film, infatti ce ne sono alcuni non particolarmente importanti per la storia del cinema, utili però per la loro capacità di fare ragionare.

Ci sono stati due capitoli tagliati da La grande illusione in sede di montaggio, come si usa dire per i film. Uno era dedicato alla pornografia e alla visione in un cinema a luci rosse, che mi sembrava però un po’ forte. L’altro invece era incentrato su una pratica che ho con un amico da più di 30 anni, che consiste nel ritrovarci ogni anno alla fine dell’estate per vedere il più brutto film in circolazione. Dal momento che ad agosto spesso escono film orribili, usati come riempitivi, abbiamo facilità nel trovare brutti film, ma noi cerchiamo il più brutto in assoluto, ribattezzato “la ciofeca dell’anno” e oggetto di goliardia. È una pratica a rovescio che testimonia comunque amore per il cinema, ma 11 capitoli per La grande illusione sarebbero stati troppi e ho preferito farne a meno, lasciando però i due post scriptum che sentivo il bisogno di fare.

La prima delle 10 stanze de La grande illusione è dedicata alla sua visione da bambino di Star Wars, che ci fa riflettere sulla sensazione di meraviglia trasmessa dal cinema. Ai bambini di oggi, circondati dalle immagini in movimento fin dal momento della nascita, la sala può ancora trasmettere quel senso di magia e stupore?

Credo che il primato della sala rimanga. Le generazioni successive alla mia, già cresciute in un contesto di ampia fruizione domestica del cinema, erano colpite dal grande schermo. Le nuove generazioni percepiscono comunque la ritualità e la passione per la sala, e i film evento lo dimostrano. Secondo alcuni il successo al cinema di questi film nasce dalla paura degli spoiler, ma secondo me invece il rito collettivo di vederli nel buio della sala viene considerato sicuramente più interessante della visione su piccolo schermo.

Sicuramente la quantità dei film e delle serie che circolano sulle piattaforme può attutire questo stupore o trasportarlo da un’altra parte. A questo proposito, per quanto riguarda specificatamente Guerre stellari, durante le presentazioni mi ha molto colpito avere in sala lettori più giovani, che hanno recuperato in maniera domestica i primi film della saga, tutti concordi nel giudicare la prima trilogia più bella e trascinante di quelle uscite più recentemente in sala. Questo se vogliamo smentisce un po’ l’enormità della sala rispetto alla visione domestica, ma Guerre stellari è sempre Guerre stellari.

Il tema dell’impressionante quantità di materiale audiovisivo in circolazione ci porta alla seconda stanza de La grande illusione, dedicata al cinema senza genitori. Un momento chiave per il cinefilo, che coincide con l’inizio della formazione di un suo gusto personale. Qual è il consiglio che si sente di dare in proposito ai giovani cinefili di oggi, che oltre alle uscite in sala si trovano letteralmente sommersi dalla marea di contenuti distribuiti settimanalmente sulle piattaforme e allo stesso tempo con più di un secolo di storia del cinema da recuperare?

Io darei due consigli apparentemente contraddittori. Da una parte, consiglio di avere sempre dei mediatori, come critici, docenti e cinefili fidati capaci di guidarli all’interno di questo grande caos. Non si può vedere tutto, per cui è importante cercare di saggiare il meglio. Dall’altra parte però invito a non dimenticarsi di sperimentare, di andare a vedere qualcosa alla cieca, che è quello che facevo nel periodo descritto da questo capitolo. La sala parrocchiale in cui mi recavo aveva una programmazione anarchica, e vedere tutto quello che passava è stata una formazione importante.

Consiglio quindi di sfidare l’algoritmo e di non vedere sempre e solo quello di cui tutti parlano e che propongono le piattaforme, recandosi per esempio a un festival a vedere film di cui non si sa niente. Solo in questo modo viene fuori la curiosità. Invito a lasciarsi guidare ma lasciare al tempo stesso uno spazio all’anarchia della visione, non dominato dalle percentuali.

La terza stanza de La grande illusione, dedicata al cinema di ragazzo e in particolare a Cuore selvaggio di David Lynch, è un’occasione perfetta per parlare degli autori fuori dagli schemi e dal mainstream, capaci di scaldare il cuore dei cinefili. Cosa può e deve fare la distribuzione per fare raggiungere il più ampio pubblico ad autori come Gaspar Noé, Nicolas Winding Refn, Pablo Larrain o Xavier Dolan?

Sono un po’ arrabbiato con la distribuzione cinematografica, perché mentre noi stiamo parlando Crimes of the Future di David Cronenberg non ha ancora una distribuzione italiana. Vortex di Gaspar Noé è stato distribuito solo in alcuni cineclub, mentre continuiamo a vedere distribuiti decine di film d’essai destinati ad avere pochissimi spettatori. Potrebbe avere senso per esempio rinunciare a qualcuno dei tantissimi film francesi medi distribuiti nelle sale italiane per dare spazio ad autori di questo tipo. Non si può sempre inseguire il mercato, se ci sono delle nicchie di mercato appassionate dell’autorialità è giusto stimolarle. In questo senso I Wonder Pictures sta lavorando bene, distribuendo titoli come Annette o Titane.

Bisogna cercare di costruire un po’ di culto intorno a queste cose, la promozione non deve nascondere l’eventuale eversione del film ma enfatizzarla. Una delle leggi primarie del mercato è che al crescere della sensazione di mistero e di proibito aumenta anche la curiosità nei confronti di un’opera. Invece spesso quando vengono distribuiti questi film si cerca di metterci un velo sopra con trailer accomodanti, facendoli sembrare quello che non sono. Servono più coraggio distributivo, l’astuzia di saper lanciare e rendere cult questi film e l’impegno a non essere il fanalino di coda nella distribuzione cinefila.

La quarta stanza de La grande illusione, dedicata al cinema da studente, ci fa ragionare sul rapporto fra un film e l’età in cui lo si vede. Nel libro fa alcuni esempi di titoli perfetti per una specifica età. Esiste invece secondo lei un autore, presente o passato, che oggi può conquistare allo stesso modo i ragazzi e gli spettatori over 60?

Al momento mi sembra che ci siano due autori con lo stesso cognome, cioè Wes Anderson e Paul Thomas Anderson. Si tratta di due autori che hanno creato due mondi: quello di Wes Anderson estremamente riconoscibile e ricorrente, con la sua grafica, il suo montaggio, i suoi colori e il suo elemento fashion, che è seguito sia da appassionati di una certa età sia da 20-30enni, riscuotendo anche un certo successo; Paul Thomas Anderson forse è un po’ più di nicchia, però anche con l’ultimo Licorice Pizza ha dimostrato che si può parlare di 15-25enni ed essere comunque stimato da 60enni che ne apprezzano i riferimenti alla Hollywood anni ’70, le citazioni, lo stile modernista e così via.

Sono figure che hanno trovato un loro pubblico e hanno anche ampliato le generazioni. Noi italiani però non buttiamoci via. Anche se è molto divisivo, Paolo Sorrentino ha fatto qualcosa del genere. È stata la mano di Dio per esempio è stato un film molto visto anche dai giovani, che magari non sono andati in sala ma hanno recuperato su Netflix. Credo che sia uno dei pochi registi italiani in grado di sfondare un ventaglio di generazioni. Purtroppo non possiamo dire lo stesso di maestri come Marco Bellocchio e Nanni Moretti, che non riescono più a toccare le nuove generazioni.

La quinta stanza de La grande illusione è dedicata al cinema da critico, e punta i riflettori su una delle ultime frontiere della cinefilia, i festival. Spesso si ha la sensazione che anche grandi festival come Venezia, vissuti con entusiasmo e trasporto dai partecipanti, in realtà abbiano un impatto abbastanza modesto sul grande pubblico. Secondo lei qual è la funzione principale dei festival oggi? E come crede che si evolveranno in futuro?

Nonostante la pandemia, da qualche anno il pubblico dei festival sta crescendo. Allo stesso tempo però, da vari anni i festival stanno diminuendo la propria presa sul resto del sistema cinematografico e sul successo dei film che vengono presentati. I festival secondo me devono fare un lavoro qualitativo, non devono rincorrere il presente. Devono trovare e mantenere un’identità forte, cercare nuove tendenze e nuovi talenti, lavorare sull’autorialità; devono inoltre fare biodiversità cinematografica, cioè non accontentarsi di quello che passa il convento e di una passerella di anteprime, ma offrire visibilità a un cinema che sul mercato ci va abbastanza poco.

In questo caso, il ruolo del festival è assolto, perché non possiamo chiedere a questi eventi di sostituirsi ad altri elementi della filiera cinematografica, semplicemente perché non possono farlo. Il lavoro sarà anche quello fuori dai festival, che consisterà nel tornare a lavorare sui film che escono dai festival, cercando di fare capire perché sono importanti. Se poi le giurie si rivelassero non troppo radicali nelle loro scelte tanto meglio, ma in ogni caso non ci si può strappare i capelli per le decisioni che prendono. Un altro elemento su cui bisogna fare attenzione per i festival è il rischio di moltiplicarli all’infinito. Il festival deve essere un festival, non deve essere una rassegna né una proiezione speciale di un film edito. Oggi si tende a chiamare tutti gli eventi festival, facendoli sembrare quello che non sono.

La sesta stanza è incentrata sul cinema da genitore, e ci dà la possibilità di parlare di un periodo cruciale della vita di un cinefilo, durante il quale deve guidare l’approccio dei figli all’audiovisivo e contemporaneamente rischia di allontanarsi dall’esperienza in sala per la necessità di occuparsi dei bambini. Inutile negare che lo streaming e l’home video sono la risposta perfetta a questa condizione. Cosa può fare la distribuzione cinematografica oggi per guadagnare piccoli spettatori e per non perdere i loro genitori?

Nel comparto specifico dei film per famiglie nel corso degli ultimi 20 anni c’è stato un sostanziale riequilibrio, con molta qualità. Si sono sviluppate realtà macroscopiche come la Pixar, ma anche l’Illumination Entertainment dei Minions ha fatto il salto di qualità. C’è stato un periodo in cui usciva tantissima animazione, adesso un po’ meno. Quel comparto ha funzionato e ha pensato anche ai genitori, facendo film dalla doppia lettura come la Pixar, che da una parte parla ai ragazzini e dall’altra fa passare due ore intelligenti anche ai genitori. Sul resto, da questo punto di vista bisogna trovare soluzioni inventive, non tanto dal punto di vista produttivo, che fa quello che può, ma da quello dell’esercizio cinematografico.

Un cosa che è stata fatta per prima da Londra, poi da città italiane come Bologna e Milano, è la cosiddetta visione disturbata. Si tratta di proiezioni di nuovi film non per bambini ma per adulti, in cui si può portare il figlio piccolissimo, accettando che ci siano pianti e allattamenti in sala. Nei progetti pilota che ho visto la cosa ha funzionato molto bene. C’erano persone che andavano a vedere film come La La Land col bambino in braccio e magari ogni tanto dovevano cambiare il pannolino o fermare il pianto, però alla fine riuscivano comunque a godersi la visione.

Non credo che sia una cosa impossibile da fare altrove o riservata solo a un centro metropolitano. Uno spettacolo ogni tanto in questa forma, magari al matinée, può aiutare a non fare perdere la connessione con il grande schermo. Secondo me c’è una soluzione per quasi tutto, basta che alle sale cinematografiche sia lasciata un po’ di libertà per programmare in maniera dinamica e per pensare ai diversi gruppi di spettatori.

La settima stanza de La grande illusione, dedicata al cinema da studioso e in particolare ad Avatar, ci permette di riflettere sull’evoluzione del cinema, la cui esperienza di visione è rimasta sostanzialmente inalterata, nonostante i ripetuti tentativi di sfondamento del 3D. Pensa che le nuove tecnologie come la realtà virtuale, la realtà aumentata o il metaverso potranno in futuro portare a una rinascita del cinema in termini di creatività e sperimentazione?

Il cinema per sua stessa natura fin dalla sua nascita è stato sottoposto a innovazioni tecnico-tecnologiche, come il passaggio dal muto al sonoro, dal bianco e nero al colore, dagli schermi quadrati agli schermi larghi o dalla pellicola al digitale. Tutte queste innovazioni però sono avvenute dentro la sala, quindi da una parte erano novità, dall’altra la pratica di andare al cinema è rimasta pressoché uguale da un secolo a questa parte. Vedere un film in realtà virtuale col casco o dentro il metaverso sarà qualcosa di completamente diverso, e lo è già ora. Non credo che la sala cinematografica possa esserne colpita perché è un’altra cosa.

Dal punto di vista artistico, credo che ci saranno tanti stimoli, però sinceramente mi chiedo se possiamo chiamarlo cinema. Li vedo più come elementi che scorreranno parallelamente al cinema tradizionale, più vicini all’arte contemporanea o digitale o al mondo del gaming. Così come i grandi autori si sono messi a fare serialità o fashion film, nulla vieta che si mettano a fare anche realtà virtuale. Credo però che il cinema come lo conosciamo oggi proseguirà per la sua strada.

L’ottava stanza de La grande illusione è dedicata all’esperienza da telespettatore, occasione ideale per parlare di serialità e delle sue diverse strategie distributive. È interessante notare che in pochi anni siamo passati dalle esperienze collettive di visione settimanale alla Lost, Game of Thrones e la stessa Twin Peaks al binge watching più sfrenato, con intere stagioni pubblicate in contemporanea. In questo momento sta emergendo una soluzione ibrida, con la distribuzione di alcuni episodi seguita dalla pubblicazione settimanale dei successivi. Nella sua esperienza di telespettatore, qual è la modalità che preferisce e perché?

Quello che sta facendo l’industria è ancora un tentativo di equilibrio, perché tutte queste fasi dimostrano che la stessa industria dell’audiovisivo, che consideriamo innovativa e perfettamente consapevole del consumo dei propri spettatori, in realtà va per tentativi. Questo ritorno a un palinsesto più rallentato è dovuto proprio all’idea di fare discutere degli episodi, perché il binge watching rischiava di bloccare la crescita dell’hype, fattore importante per alcune serie.

Io sono cresciuto con la cultura dell’episodio settimanale, ma anche con la frenesia dell’attesa di quello successivo. Per me era insopportabile aspettare una settimana per Twin Peaks, per non parlare dei momenti in cui eravamo già in una situazione abbastanza moderna, in cui le serie arrivavano in Italia in ritardo rispetto agli Stati Uniti ma qualcuno ti diceva sempre com’era andata. Tutto questo mi ha fatto adorare il momento in cui siamo in contemporanea col resto del mondo e c’è tutto a disposizione subito. Personalmente quindi sono un binge watcher, mi piace compattare e non amo molto l’attesa, anche se ne comprendo perfettamente la ricchezza comunicativa. Ancora adesso, per le serie Marvel e Star Wars aspetto che si accumulino alcuni episodi poi mi ci tuffo. Questa però è solo una pratica dovuta al mio gusto personale.

La penultima stanza de La grande illusione parla del cinema sotto le stelle di Bologna e più in generale dell’esperienza di visione in un contesto urbano. Se ben gestite, le proiezioni all’aperto e le arene estive possono ancora essere un ideale anello di congiunzione fra lo spettatore e la sala e allo stesso tempo l’occasione per creare condivisione e aggregazione sociale?

Secondo me sì, con due patti che bisogna fare. Il primo consiste nel cominciare a considerare le arene estive come un vero e proprio passaggio distributivo. Al momento, ogni città si fa la sua arena estiva coi film della stagione passata, qualche anteprima e qualche ospite. C’è qualche piccolo accordo fra città vicine per la presenza di un attore, ma ognuno lavora per sé. Nel momento in cui è abbastanza evidente che la stagionalità rimane la stessa, cioè da settembre a maggio, i tre mesi estivi non fossero solo il momento dell’arena all’aperto, ma anche un momento per mettere in contatto queste arene. La stessa distribuzione potrebbe mettere sul mercato film (non per forza i più spettacolari) per le arene estive, con un accordo fra arene per farli circolare. Questa è una cosa che si dovrà fare, perché le arene sono protagoniste della filiera contemporanea e hanno molti spettatori.

Il secondo punto è quello di fare attenzione alle arene gratuite. Lo dico con grande rispetto, nel caso mio soprattutto per Bologna, che come racconto nella nona stanza de La grande illusione ogni sera d’estate proietta gratuitamente un film all’aperto. La moltiplicazione delle arene gratuite è una bella cosa, come l’idea di donare cultura ai cittadini, che gli assessori alla cultura hanno fatto bene a pensare. Però dobbiamo ricordarci che c’è un effetto boomerang. La mia sensazione infatti è che si stia abituando il pubblico a pensare che il cinema sia gratuito, che gli abbonamenti mensili con 300 film possano costare 10-11 euro e che un film che invece ne costa 7-8 diventi una cosa terribile da affrontare dal punto di vista mentale. Lavorando in questo modo si divulga la cultura cinematografica, ma passa l’idea che tutto debba essere gratuito.

L’ultima stanza de La grande illusione, dedicata al cinema con la mascherina, è un’occasione per parlare della difficilissima situazione delle sale italiane, con cali superiori al 50% rispetto ad analoghi periodi pre-covid. Con un auspicabile miglioramento della situazione sanitaria, i cinema avranno la possibilità di tornare a margini di profitto accettabili? Con i film evento a farla da padrone, come pensa che cambieranno le strategie produttive e distributive?

Il sistema attuale non è sostenibile, e non si può neanche pensare che lo stato possa perennemente aiutare aziende private. La sostenibilità deve arrivare attraverso il prodotto. Questo è un problema che coinvolge tutti: esercenti che devono essere più liberi, distributori che devono essere più bravi a scegliere, produttori che devono rendere sostenibile a loro volta il sistema. Tutto deve essere in scala. In questo momento viviamo una situazione assurda, in cui c’è un’enorme quantità di produzione (non ci sono mai stati così tanti set aperti, grazie alla defiscalizzazione e ai soldi immessi dalle piattaforme) ma la situazione che conosciamo per l’utente finale.

Il sistema si deve ristrutturare: i film devono costare un po’ di meno, la distribuzione deve chiedere un po’ meno agli esercenti, gli esercenti devono costruire meglio e più liberamente la propria proposta e magari la filiera deve decidere, insieme al governo, una leva di qualche tipo, che per esempio può essere il biglietto a 4 euro, 7 giorni su 7, per tutti gli under 14, come già fatto in Francia. Ci possono inoltre essere stimoli per l’insegnamento del cinema a scuola o per due feste annuali (a settembre e marzo) con biglietto scontato. Al momento stiamo guardando il Titanic che affonda, lamentandoci sui social media. Non c’è nessun’altra iniziativa se non dare soldi alle sale che perdono soldi. Non si può andare avanti così. È una strada molto stretta da percorrere ma la dobbiamo percorrere, decidendo qual è il sistema che regge.

Per quanto mi riguarda, il sistema che regge è quello di tornare in un paio d’anni ai 100 milioni di biglietti venduti all’anno, pari a quasi 2 biglietti per cittadino. Senza quel break even, secondo me il cinema non sta in piedi. Non so però cosa succederà nel prossimo autunno.

L’ultima domanda è su una stanza che ne La grande illusione non c’è, quella dei film non ancora visti. Qual è il consiglio che si sente di dare, soprattutto ai giovani critici, per convivere e rimediare alle proprie lacune? E infine, vuole condividere con noi un suo scheletro nell’armadio, cioè un cult o un classico del passato che per i più disparati motivi non ha ancora potuto o voluto vedere?

Il giovane critico deve riuscire a trovare una via dal punto di vista del canone, che è ormai abbastanza evidente. C’è tanto cinema da recuperare, ma ci sono cineteche o anche scherzose classifiche dei migliori film della storia. E come fare l’allenamento prima del campionato, se non l’hai fatto devi fare richiami durante la vita di critico. Questo è anche un richiamo allo studio e al lavoro, perché se non lo si prende seriamente e se non si capisce che la disciplina è fondamentale tanto quanto lo è per altri lavori non si va avanti.

Per quanto riguarda il mio caso, a me mancano alcuni grandi classici di Akira Kurosawa come Vivere, che sono molto importanti e che ho tardato a vedere per un motivo o per l’altro: un po’ perché non sono mai diventato un grande conoscitore del cinema orientale, che è un po’ il mio tallone d’Achille; un po’ perché capita di pensare che non serva recuperare una cosa persa. In verità, anche noi esperti quando andiamo a festival dedicati alla storia del cinema o riguardiamo certi film ci accorgiamo di quanto quel contatto è importante.

Questo capita spesso ai docenti di storia del cinema come il sottoscritto, perché spesso in aula c’è il tempo di analizzare solo le sequenze più importanti, quindi alcuni film si risolvono nella nostra memoria in 3-4 scene. A volte quindi bisogna rivedere anche i grandi classici che si crede di conoscere perfettamente.

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